ATTENZIONE

QUESTO BLOG È UN ARCHIVIO CHE RACCOGLIE I POST ANTERIORI AL 2014. IL NUOVO BLOG LO TROVATE QUI.

lunedì 31 maggio 2010

Giro D'Italia III

La vittoria di Basso sulla gazzetta.

Ed ora aspettiamo il Tour...

Come al solito

Qui specifico un po' di cose su questioni che ho trattato altrove.
L'incontro con Luigi de Magistris è stato interessante. Per diversi aspetti:
- E' piacevole ascoltare chi non ha paura di dire la verità.
- E' piacevole ascoltare chi sa portare avanti un discorso, seppur appassionato, logico e con un inizio ed una fine.

Meno piacevole, (ma come potrebbe essere altrimenti?) è vedere le bandiere dei partiti sventolare e veder trasformare incontri interessanti in apologie personali. A dire il vero la colpa non è di de Magistris, ma di chi, alla provocazione di un noto "esponente del partito a noi ci piace la provocazione durante eventi pubblici", ha risposto - Si per noi de Magistris è un eroe -.

sabato 29 maggio 2010

Giro D'Italia II


Oh, Ivan Basso potrebbe farcela.
Metto il condizionale solo perché sono appena appena scaramantico.
Quella di oggi, forse più della tappa dello Zoncolan, è stata magnifica. Tre italiani in testa (Basso, Scarponi e Nibali) che si aiutano, il primo e l'ultimo perché fanno parte della stessa squadra, quello di mezzo perché ci si è trovato e soprattutto aspettava da quindici giorni di vincere una tappa.

A me piace Ivan Basso. E' sempre ordinato, sempre preciso. E poi il ghigno, il suo ghigno (così lo definiscono i commentatori, non so se ricordate il post precendente) mi affascina. Per giorni ho cercato un immagine sul web per farvi capire di cosa stessi parlando, ma solo oggi l'ho trovata. L'ho presa da un sito inglese, pare che non se ne trovino altre.
Basso è quello che ghigna mentre divora le montagne sacre del giro d'Italia, quello che non molla, che si alza poco sui pedali, quello che scala rimanendo seduto e composto.
E' quello che parla a bassa voce durante le interviste, un po' per la fatica ed un po' perché sa che dovrà aspettare un paio di giorni prima di poter cacciare un vero urlo.


giovedì 27 maggio 2010

Ho visto Mine vaganti

E mi è anche piaciuto.
A parte il fatto che mi ha fatto ridere praticamente dall'inizio alla fine, per citare una delle serie tv che sto guardando con più piacere (e di cui a dire il vero non ho ancora scritto), per quanto sia un film italiano non è poi così tanto italiano.

Ho pensato subito alle critiche che lessi sui giornali alla sua uscita qualche mese fa:
si accusava principalmente il fatto che il tema dell'omosessualità fosse stato trattato in maniera così caricaturale e macchiettistico.
Ma vabbè, la trovo una critica un po' fuori luogo, considerando che da che mondo è mondo le commedie giocano sull'esagerazione e sull'estremizzazione. E non è che queste cose siano state teorizzate l'anno scorso.
E poi ricordo che una certa critica temeva la possibile insurrezione del mondo gay. Ed anche questa mi pare un po' fuori luogo. Bisognerebbe temere quindi anche la possibile insurrezione degli imprenditori salentini.

lunedì 24 maggio 2010

Ho comprato una macchina fotografica - Il palco


Non che me lo chiedano così tanto per le mie qualità di (ex) musicista, ed in realtà non me lo chiedono neanche così tanto, ma la risposta solita alla domanda Ma davvero non suoni più? è, almeno la maggior delle volte, sto facendo altro.

Ieri sera però, per la prima volta, mi è venuta un po' di malinconia. Perché? Cioè, di cosa? vi chiederete. Ed in effetti, l'ultima cosa che volevo, era sedermi davanti al computer e tirare fuori uno di quei post pieni di costruzioni fatte di pura dietrologia manco avessi fatto il direttore d'orchestra per trent'anni. Quindi ci provo, a non essere borioso o chissà cos'altro.

I palchi si somigliano tutti. E' solo quello che c'è intorno che cambia. Certo, qualcuno è più grande e qualcuno meno illuminato (o illuminato peggio), qualcuno è più stretto e qualcuno più lungo, sicuramente qualcuno sarà più morbido sotto i piedi e qualcuno meno comodo.
Parlo ovviamente dei palchi su cui si suona, non sono un grande esperto di teatro.
I palchi spaventano solo un attimo prima di salirci sopra. Nessun palco è inospitale, nessun palco ha i demoni appesi sulle transenne delle luci. Ve lo dice uno che si è fatto letteralmente divorare dall'ansia, prima di salire quelle due o tre scalette che portano a stare un metro e mezzo sopra la gente. I palchi, ed è in questo che tutti i palchi si somigliano, ti permettono di vivere lontani da qualsiasi tempo e da qualsiasi spazio.
E lì sopra spesso succede qualcosa tra le persone che suonano insieme. Dura esattamente quanto dura l'esibizione, non un attimo di più. Un momento c'è ed il momento dopo non c'è più. Dopo si parla, si discute, si contano gli errori ed i momenti esaltanti, ma si è consumato tutto, tutto quello che si poteva consumare, lassù.
Questo mi manca, quell'ultimo passo che ti porta sopra, lo sguardo lanciato al buio squarciato dai fari bianchi, l'ultimo passo che annuncia l'arrivo di quattro o cinque o sei o sette persone in un posto lontano dallo spazio e dal tempo, per mezz'ora, forse un'ora o due.

(La foto è stata scattata durante la manifestazione YouThink alla Città della Scienza, poco prima che I Revenaz Quartet salissero sul palco)




domenica 23 maggio 2010

Il giro d'Italia

Ci sono un sacco di belle immagini da ricordare nei grandi sport.
Che ne so, l'urlo di Tardelli, Ferrara e Maradona che si abbracciano, Valentino Rossi che vince il suo primo mondiale, quella foto bellissima di Mennea al traguardo...troppe per citarle tutte.

Oggi ne voglio aggiungere un'altra a questo sconfinato elenco.
Basso che dopo aver faticato come un matto su tre quarti dello Zoncolan stacca definitivamente Evans e se ne va. Lo Zoncolan non è un monte, ma come dice qualcuno, è come una rampa da parcheggio. Le pendenze arrivano fino al 22%.
Ora, chi pedala un po', sa quanto possa essere pesante una salita del genere.
Ivan Basso è uno di quelli che ha pagato per uno dei tanti scandali sul doping nel ciclismo.
E lo Zoncolan è uno di quei monti la cui immagine è resa ancora più cupa e tenebrosa dal timore che corridori e tifosi alimentano. Poco prima di iniziare l'inesorabile salita lunga una decina di chilometri, è comparso uno striscione, a formare un ponte sotto cui i ciclisti sono passati, che intimava che si stava per attraversare La porta dell'inferno.

La gente ai lati delle strade, quelli che nelle squadre sono destinati a tirare come muli e a non essere mai ricordati, i più magri che si alzano sui pedali e dondolano a destra e sinistra arrampicandosi quasi si scalasse con le mani, le borracce che vengono lanciate lungo la strada, segno di stanchezza, di dolore, della voglia di fermare le gambe.

Su tutto questo lo sguardo di Basso, il volto sofferente ma che pare sorridere.


sabato 22 maggio 2010

Malgioglio, ti prego, insegna a scrivere canzoni a qualcuno

Sono stato al concerto di Giuliano Palma ieri sera.
- Ma questa non l'avevano già fatta? - Ok, questa era un po' cattiva.
Ieri sera con un amico si scherzava sull'uso ostinato di alcuni fill da parte della band. Ma li perdoniamo perché il loro stile e la loro "poetica" di ricondurre al genere reggae, ska o quant'altro, grandi pezzi classici, prevede ovviamente una totale adesione al genere. Insomma, sono convinto che quello stacco iniziale di batteria uguale per ogni pezzo non piaccia tanto neanche a loro, ma il genere è quello, e ci deve stare lo stacco di batteria.

Non li avevo mai visti/ascoltati dal vivo e non c'è molto da dire. Sono forti. E' forte lui e la sua pelata e gli occhiali da sole, sono forti loro "quadratissimi" e a loro modo coinvolti emotivamente nella faccenda. E poi con me si va a nozze quando si parla di vecchie canzoni.
Non a caso la cosa che ho pensato, sia ben chiaro non per presa di posizione immotivata o puro si stava meglio quando mia nonna faceva gli gnocchi fatti in casa, è che non ci sono più autori che scrivono canzoni come questa:

mercoledì 19 maggio 2010

Senza stile

Giampelmo

Sulla colonna a destra ci sono dei link che vi consiglio di visitare. Uno di questi, Giampelmo Schiaragola: blog per aspiranti supereroi, è tra quelli che seguo di più.
Sia perché mi fa molto ridere, sia perché all'autore, Simone Laudiero, piacciono un sacco di cose che piacciono anche a me: La scrittura, i film di fantascienza, Star Wars, Yoda e nerdaggini varie ed eventuali. (Tranne i cellulari, a quanto pare).

Una delle cose che più mi piace fare è scrivere articoli su cose che rientrano così tanto nelle mie corde. Potete leggere l'articolo su Simone Laudiero qui.

Un po' di nucleare

Io odio il sangue. Odio le foto sanguinolente e gli oggetti usati dai medici.

Sono stato al museo Nitsch, e a parte il fatto che dopo 10 minuti volevo uscire per tutto quel sangue, se volete leggere due parole interessanti sul tema del nucleare, ho scritto un pezzo che potete leggere qui.

Dieci Inverni


Ieri sera sono andato al cinema a vedere Dieci Inverni.
Sto seguendo un cineforum, lo so che è uscito mesi fa.

A qualche mio amico che era con me è piaciuto, a qualcun altro no.
A me è piaciuto, però mi fa un po' strano parlarne. E' una di quelle storie intime, fatte di tanti silenzi e di posti che ti sei sempre immaginato in un modo e che poi in realtà sono diversi. Parlo di Venezia. Certo, il film si chiama Dieci inverni e quindi capirete che Venezia non è ripresa il 15 agosto, però chi avrebbe mai creduto che Venezia fosse così d'inverno. Ma soprattutto, chi mai aveva immaginato Venezia d'inverno.

La storia è quella di due ragazzi che si incontrano su un traghetto diretto a Venezia, città scelta da entrambi per l'università, e che per dieci anni non faranno altro che vivere una sorta di storia d'amore/amicizia/caso/volontà/cose non dette/cose dette troppo frettolosamente/non fatte/fatte troppo frettolosamente.
Ed è una storia atipica, soprattutto considerando tutto ciò che c'è in giro. L'ho trovata incredibilmente reale. Non c'è stato in alcun modo la volontà di muovere due personaggi l'uno verso l'altro e di forzarli all'azione in nome del dio della narrazione e dell'arte cinematografica italiana.
No, in questo film le cose accadono e basta. O non accadono e basta. La maggior parte delle volte non c'è neanche un motivo, c'è solo il tempo che passa.

Vi ricorda qualcosa, no?

martedì 18 maggio 2010

Uomini & Uomini - Mi sta stretto lo stivale

Mi sta stretto lo stivale è il titolo del programma che conduco con Riccardo Cremona e Corrado Parisi su Radio VentiDieci.

Siamo stati un po' sciocchi, proprio all'inizio quando abbiamo fatto partire la radio e, capoccioni come muli, non abbiamo controllato per bene se il titolo fosse già stato usato per qualche altro prodotto. Un paio di settimane fa mi ha contattato un ragazzo, poco più grande di me, che in maniera molto gentile mi ha fatto notare che il titolo da noi scelto è in realtà il titolo di una sua canzone.

Lui si chiama Dennis Bertolini e fa il cantautore.

Poteva fare diverse cose: insultarci, farci cambiare titolo, intraprendere azioni legali...ed invece abbiamo iniziato una piccola collaborazione (che spero diventi una grande collaborazione).
La sua canzone, che potete ascoltare sul suo space cliccando sul suo nome, è diventata la sigla del nostro programma.

Lo stivale va stretto, insomma.
Dennis fa bella musica e scrive dei testi davvero interessanti. Ha messo su uno spettacolo che pare essere niente male e che spero di vedere presto. Voi ovviamente se vi trovate a passare per Roma andate a dare un'occhiata. Le date le trovate tutte sul sito.
Tra l'altro abbiamo seriamente rischiato di beccarci qualche anno fa durante concerti e concertini vari, nell'altra vita, quella passata.


lunedì 17 maggio 2010

Caro Josè



Caro Josè,
o come tutti ti chiamano, caro Special One.
Io non sono un tifoso interista, non solo perché tengo chiaramente per il Napoli, ma anche perché tutta questa faccenda della squadra fatta per vincere, creata per maciullare le ossa degli avversari, per vincere tutto quello che si può vincere, non è che mi piaccia così tanto. Dirai tu - E che è?Non si fa squadra per zeru tituli, si fa squadra per vincere, non per accontentare voi giornalisti -, ed infatti hai anche ragione. Però mi piacciono le squadre che si rivelano cenerentole, che a fine campionato stupiscono tutti e fanno dire alla gente - Ma vedi che è successo, alla fine -. La mia avversione per l'Inter non è motivata neppure dall'invidia per l'enorme quantità di soldi che ha il signor Moratti poiché anche il signor De Laurentis ne ha un po'.
Forse c'è da fare una precisazione: Moratti è petroliere, tra le altre cose, e quindi inquina un po' di più del nostro presidente in giubbottone azzurro e occhiali Carrera che inquina solo il nostro patrimonio cinematografico.
Ma suvvia, non facciamo il capello in quattro, è un fatto di gusti.
Però una cosa te la devo dire: se te ne vai fai un grande errore.
La vera scelta coraggiosa, non è andare a vincere per mari e monti, in Portogallo, in Spagna, in Inghilterra, in Italia, ma è rimanere dove hai vinto tutto quello che potevi vincere.
Anche Lippi dopo che ha vinto il mondiale è andato via. Embè? Che è stato furbo? Per la mentalità media italiana, si, lo è stato. Ma lo sport non è questo. Lo sport è andare sempre un po' più in là, spostare il limite sempre un po' oltre, sempre un attimo dopo, sempre un metro più in avanti. Essì, poi c'è il pericolo che si perde. E Josè, ma è questo lo sport. Sei o non sei lo Special One?
Che poi te ne vai al Real Madrid, ci sta Ronaldo, ci sta Benzemà, ci sta Kakà, ma che sfida è questa? Vai alla Cremonese piuttosto e provaci a far diventare Cris Gilioli il nuovo Maicon. (Con tutto il rispetto per uno dei pezzi di storia del nostro calcio, la Cremonese, non Gilioli, gran bel giocatore ma non esageriamo).

Ps: In bocca al lupo per la finale.

venerdì 14 maggio 2010

Mentre Leggo...Tennis, Tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)

I vecchi rivoltosi postmoderni rischiavano "OoH!" scandalizzati e gridolini di orrore: shock, disgusto, indignazione, censura, accuse di comunismo, anarchismo, nichilismo. Oggi i rischi sono diversi. I nuovi ribelli potrebbero essere artisti pronti a rischiare lo sbadiglio, gli occhi al cielo, il sorriso di sufficienza, le strizzatine d'occhio, la parodia dei fini umoristi, i "Dio mio quant'è banale". A Rischiare di essere accusati di sentimentalismo, di melodrammaticità. Di eccessiva sprovvedutezza. Di debolezza. Di essere ben disposti a farsi fregare da un mondo di spioni e guardoni che temono lo sguardo e il ridicolo altrui più di una condanna ai lavori forzati. Chissà. Oggi gli scrittori giovani più impegnati sembrano davvero arrivati a una specie di ultimo estremo capolinea.

-.-.-.-.-.-

David Foster Wallace - Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), Minimum Fax


giovedì 13 maggio 2010

Cosa è successo

Faccio una delle mie solite premesse, perché mi piace essere chiaro, così poi non arrivano mail del tipo "bla bla bla tu parli così perché" e "bla bla bla sei di parte bla bla bla".
(A questo proposito ho scoperto che alle persone piace molto di più mandarmi mail private che commentare pubblicamente)

Mia madre lavora come dipendente al museo nazionale.
Le critiche che muoverò ad una lettera apparsa pochi giorni fa sul Mattino non sono in alcun modo mosse dalla volontà di difendere lei o la categoria.
Ho solo avuto la fortuna che proprio mia madre mi facesse notare questa lettera forse passata troppo inosservata.

Potete leggerla qui.

L'archeologa in questione si lamenta delle cattive abitudini dei dipendenti statali:

Verso le 9:30 inizia il rito della colazione ordinata per telefono al bar vicino; forse qualcuno sta pensando ad un caffè, ma si tratta di ben altro: cioccolata calda non troppo densa, caffè lungo in tazza fredda con zucchero di canna, caffè ristretto in bicchierino di plastica con zucchero raffinato, cornetto vuoto ma con spolverata di zucchero, cornetto alla marmellata ma senza zucchero, spremuta d’arancia, cappuccino senza cacao sopra, ecc. Non è un caso che la macchinetta automatica per il caffè sia stata rimossa dopo pochi mesi in quanto non si raggiungeva il numero di cialde minimo previsto.

E già qui mi piace fare una precisazione. L'atteggiamento di cui parla l'archeologa in questione non è un atteggiamento esclusivo dei dipendenti statali. Ho lavorato in un negozio, anche grande, di cui non ero diretto dipendente, ed anche lì mi è sembrato che ognuno facesse colazione a modo proprio e con ciò che voleva. Lo considererei più un atteggiamento tipicamente "meridionale", ma anche su questo non mi giocherei niente. Considerare l'abitudine a voler fare colazione durante le ore lavorative esclusivamente un abitudine dei dipendenti statali è sciocco, per non dire altro. Perché? Perché abbiamo le prove che questi atteggiamenti fanno parte di una tradizione (giusta o sbagliata che sia) radicata in molti ambienti di lavoro.
E continua:

Mentre si attende il barista, che prenderà anche le ordinazioni per il pranzo, purché non si decida per le pizze, che sono sempre buone, un’impiegata mette il bollitore sul fuoco per chi gradisce il tè.

Ce l'ha proprio con chi a colazione non vuole prendere solo un semplice caffè. Ma non andiamo oltre.

Dopo la colazione, che ha rinfrancato tutti, mentre gli impegnati si consacrano alla lettura del giornale, gli altri si dedicano alle loro attività preferite: c’è l’addetto alla biblioteca che mette la testa sulla scrivania e dorme per un’oretta; la signora tanto brava e gentile che, in mancanza di meglio, fa l’uncinetto; molti, semplicemente, fissano il vuoto; qualche volenteroso si dedica a studiare per il prossimo concorso interno; rari fanno il solitario al computer, ma solo perché ancora per tanti il computer resta un oggetto misterioso e poi internet, dove c’è quel sito specializzato in cui scegliere la nuova cuccia per il cane, è molto più divertente.

E questo, effettivamente è un problema serio. Ma trattato nel modo sbagliato. Il problema non viene toccato in punti importanti, come la mancata capacità di offrire mezzi ai dipendenti per ottimizzare il lavoro, di corsi di formazione (ma davvero) per imparare ad utilizzare i computer, e certamente, anche di controlli che possano modificare il comportamento (divenuto abitudine) di dipendenti lasciati completamente soli in un mondo che va veloce come un treno.
La lettera poi prosegue su note di colore che purtroppo, cara archeologa disperata, non hanno a che fare con i dipendenti statali: ma con atteggiamenti tipici di qualsiasi luogo di lavoro campano. Sono sicuro che ovunque, in qualsiasi ambiente lavorativo, sia capitato a qualche dipendente di portare il nipotino o il figlio.
Se poi vogliamo fare finta che non sia così, facciamolo. Così continueremo a non risolvere i problemi combattendo non la malattia ma i sintomi.
Voglio però portare all'attenzione un punto importante, che è davvero il centro del discorso:

Scrivo questa mia non per lamentarmi della nostra condizione ma, piuttosto, per invocare Brunetta affinché venga nelle nostre soprintendenze a vedere come il personale si prodiga nell’espletamento delle proprie mansioni.

E' scritto all'inizio della lettera.
Invocare Brunetta.
Brunetta, mia cara archeologa disperata, non ha dimostrato di essere diverso dagli altri lavoratori del nostro paese: ha solo urlato all'Italia intera che gli uffici sono pieni di Fannulloni.
In una guerra, così come la descrivi, forse hai deciso di schierarti dalla parte sbagliata. Quanto guadagna un dipendente statale? E quanto guadagna Brunetta? E quanto guadagna, soprattutto, per fare quello che fa?

Forse ci si dovrebbe chiedere questo, per individuare il vero problema. Forse bisognerebbe rivedere i complicati meccanismi del mondo del lavoro, e cambiare, per una volta almeno, le cose dall'alto e non dal basso. Tra le altre cose tu stessa parli di una guerra tra poveri. Credi che il modo per vincere una guerra del genere sia rimanere sola ed unica (e povera) una volta sconfitti tutti gli altri (poveri esattamente come te, solo da vent'anni e non da un paio), dopo aver chiesto l'aiuto di uno (ricco) del cui lavoro si potrebbe parlare tanto ed in maniera negativa?






sabato 8 maggio 2010

Denti Bianchi


L'ultimo libro che ho letto, Denti bianchi di Zadie Smith, rientra in quel vastissimo filone che prende il nome di Realismo Isterico o Postmodernismo.
Non a caso ho letto per la prima volta il nome dell'autrice in un libro di Wallace. Ha curato la postfazione a La ragazza dai capelli strani. Ha scritto quanto Wallace fosse importante per lei e, soprattutto, quanto fosse particolare la sua condizione: uno scrittore contemporaneo e vivente che è amato ed idolatrato da altri scrittori contemporanei e viventi.
Una postfazione molto divertente.

Denti bianchi è un libro gigantesco. Non tanto per la mole, siamo sulle 550 pagine più o meno, ma per gli argomenti, per i temi, per lo spessore dei personaggi. E' la storia di tre famiglie nella Londra caotica e multirazziale che si prepara all'arrivo del 2000. Abbiamo così Samad Iqbal e sua moglie Alsana. I Jones, Archie e Clara (Inglese lui, di origine giamaicana lei). Abbiamo i loro figli (Archie e Samad sono molto amici, per motivi che piano piano verranno scoperti), Magid e Millat Iqbal e la decisa Irie Jones. Nella terza parte del libro entrano nell'intreccio i Chalfen, intellettuali inglesi dal comportamento bizzarro.
I personaggi si scontrano, si azzuffano, si innamorano, si inseguono, e tutti cercano la propria identità.

Se la religione è l'oppio dei popoli, la tradizione è un analgesico ancora più sinistro, semplicemente perché di rado appare sinistro. Se la religione è un laccio fasciato stretto, una vena pulsante e un ago, la tradizione è una mistura assai più casalinga: semi di papavero macinati nel tè; una dolce bevanda al cioccolato spruzzato di cocaina; il tipo di cose che avrebbe potuto preparare la nonna. Per Samad, come per la gente della Thailandia, la tradizione era cultura, e la cultura portava alle radici, e le radici erano buone, erano principi incontaminati.

Samad continua la lotta con la religione e con le sue crisi musulmane. Costantemente è preso dal disgusto per i comportamenti occidentali. Sente che la sua purezza è messa costantemente in discussione dal mondo che lo circonda. Prova, in tutti i modi, a controllare la futura fede dei due gemelli Magid e Millat. Non voglio anticiparvi nulla della trama ma possiamo dire che non avrà vita facile.
I temi del libro sono quindi attualissimi. E trattati in maniera approfondita: se credete di trovare la solita retorica sull'integrazione sbagliate di grosso. Il racconto del meltin-pot spiegato nel libro non ha nulla a che vedere con i soliti stringiamoci le mani tutti in un solo grande girotondo, ma tiene conto delle vere differenze e dei veri problemi.

Questo è stato il secolo degli sconosciuti, di pelle scura, gialla e bianca. Questo è stato il secolo della grande sperimentazione immigratoria. E' solo ora che entrando in un parco giochi si può trovare Isaac Leung a pesca vicino allo stagno, Danny Rahman sul campetto di calcio, Quang O'Rourke che lancia al canestro, e Irie Jones che canticchia una melodia. Ragazzi con il nome di battesimo e il patrocinio in rotta di collisione. Nomi che al loro interno celano esodi di massa, barche e aerei stracolmi, sbarchi gelidi, controlli medici. [...]
Ma gli immigrati ridono sentendo i timori dei nazionalisti, che hanno paura delle infezioni, delle penetrazioni, della mescolanza di razze, tutte cose da poco, bazzecole, se paragonate a ciò di cui hanno paura gli immigrati...la dissoluzione, la scomparsa. Perfino l'impassibile Alsana Iqbal si svegliava regolarmente in una pozza di sudore dopo una notte visitata da visioni di Millat (geneticamente BB; dove B sta per bengali-nità) che sposava una ragazza di nome Sarah (aa, dove la "a" sta per ariana), e come risultato nasceva un bambino chiamato Michael (Ba), che a sua volta sposava una certa Lucy (aa) lasciando Alsana con un legato di bisnipoti irriconoscibili (Aaaa!), dalla bengali-nità più che diluita, con il genotipo nascosto nel fenotipo.

Non vorrei citare ancora Pamuk, ma sono costretto.
E' in libri come questo che si realizza la sua idea di romanzo come specchio della vita umana. Non è tanto nei temi, nelle scelte delle argomentazioni da trattare, che si realizza la similitudine, ma nella struttura narrativa del romanzo. E così siamo partecipi di ciò che accade in più tempi ed in più luoghi, siamo testimoni delle piccole storie e delle grandi Storie. Tutto ciò che accade non accade mai in una sola direzione.
E' il mondo ad essere così.

-.-.-.-.-.-.-

Zadie Smith - Denti bianchi, mondadori


giovedì 6 maggio 2010

Caro Francesco



Caro Francesco,
tu mi stai simpatico. Mi sei sempre stato simpatico.
Mi sei simpatico perché hai fatto il cucchiaio contro l'Olanda, perché hai segnato quel rigore contro l'Australia, che se non lo segnavi tu, non so chi lo poteva segnare. Mi sei simpatico perché hai sempre l'aria di chi sembra essere capitato nell'olimpo per caso, senza averci quasi dovuto lavorare su (che poi non è vero).
Mi sei stato simpatico anche quando hai sputato addosso a Poulsen. Diciamolo: considerando l'attentato che il biondo ha fatto alla dignità del nostro calcio sei stato lungimirante. E quanto mi sei stato simpatico quando hai fatto con le mani il gesto alla juve quattro e andate a casa. Mi stai perfino simpatico quando fai le pubblicità!
Mi sta simpatica tua moglie e i nomi strani che date ai vostri figli, tipo Chanel.
Però Francè stasera hai fatto proprio la figura dello Zidane.
Può averti detto di tutto, anche l'unica cosa che non vuoi sentire. Lui ha 19 anni, tu più di 30. Lui ha fatto un'azione da grande giocatore, tu l'hai azzoppato alle spalle, con cattiveria e rischiando di fargli molto male. E mo se non ti rompono la scatole con questa storia, sono cretini loro più di te. Che già ho letto in giro che con le scuse che hai messo in mezzo (giustificazioni più che scuse) tendono tutti al perdono. Certo, non dicono Totti ha fatto bene ma tendono a chiudere un occhio, tutti, anche i non romanisti.
C'hai fatto la figura dello Zidane, Francè. E quella figura è quella che ti resta addosso.


Ps: Se non volevi andare al mondiale bastava dirlo.


mercoledì 5 maggio 2010

Massimo! Massimo! Massimo il misericordioso!

Ieri sera D’Alema (cui di solito mi riferisco con i più consoni “Massimo” o “il Capo”, perché sia chiaro come la penso) ha perso le staffe con Sallusti, persona che trasuda una spregevolezza più profonda degli schieramenti eventuali di ciascuno. Non voglio nemmeno entrare nello specifico della questione in sé, perché non me ne frega niente e non voglio alimentare il ciarpame con ulteriore ciarpa. Mi limito a dire che il contesto di Ballarò è ancora oggi foriero di trappole e inganni, se non si sta attenti.

Il garbo del conduttore fa passare un’arena sanguinaria per sala da tè. La simpaticissima Polverini (vieni vieni con me/shomi shomi de uè) è Presidente della Regione, gestisce i soldi della sanità del Lazio, e lo fa per la verve dimostrata in quel contesto, non per altro. Non dico che sia colpa di Floris, anzi: è un pregio del programma, dal loro punto di vista. Però è così. Sallusti apre bocca, introdotto dal cortese Floris, e uno deve avere la lucidità per ricordare che lo scorpione punge sempre la rana, Nosferatu morde al collo appena può, e a farsi fottere lo devi mandare subito, d’ufficio, prima di incazzarti sui suoi populismi pusillanimi. Se no poi non passa che Sallusti ha detto una minchiata, ma che D’Alema ha fatto gli occhi del Villaggio dei Dannati.

Sono d'accordo con Bordone.

Note


Sbirciavo su internet cercando materiale riguardo ad una delle mie ultime ossessioni.
Il sito su cui l'ho trovata a dire il vero è un po' strano. O almeno vende strane magliette.
Ma questa vignetta è molto molto carina.


da infinitydayweekend.com

martedì 4 maggio 2010

Ho visto genitori e figli

E non mi è piaciuto tanto.
L'ho trovato retorico, intriso di quella dannata (o d'annata) volontà di parlare in modo immaturo delle problematiche adolescenziali. Figli cretini che fanno cose cretine, spesso per colpa di genitori cretini che non fanno altro che urlare. E dai, che le famiglie italiane non sempre sono così. Mi chiedo che persone siano chi continua a scrivere film del genere: commedie che si somigliano quasi in tutto, soprattutto nelle porte sbattute con violenza e nella simpatia del piagnemose addosso, perché i giovani, ma anche i vecchi...però le nonne invece, le nonne sono tutte fighe.

Però il film in alcune cose mi è piaciuto.
Mi è piaciuto Placido, tanto anche. E mi è piaciuta la Buy.
E poi mi è piaciuto questo giovane Emanuele Propizio. E' il tipico attore che ti fa ridere anche se sta zitto o se alza solo le sopracciglia.
Non so, ma a me pare un predestinato.
E speriamo di non avergli tirato un po' di scalogna.

domenica 2 maggio 2010

Disco Days (Ho comprato una macchina fotografica)


Vi ricordate il disco days? Ci sono andato anche l'anno scorso.
Quest'anno era ancora meglio. Un sacco di espositori e tanti, tantissimi dischi, musica suonata dal vivo e tanta gente simpatica.

Quando da giovane (!) facevo il musicista, precisamente quando ho iniziato a studiare la musica, tra i sedici e i diciassette anni, frequentavo una scuola, l'8 jazz, al Corso Vittorio Emanuele. La bellezza di quel posto (un locale rosso con un sacco di foto in bianco e nero alle pareti), e la bravura di chi insegnava e gestiva, l'ha reso un luogo discretamente famoso e soprattutto una scuola di "qualità".
Ho studiato/suonato lì per quasi tre anni, prima di navigare verso altri lidi, ma ho dei ricordi di quel posticino che credo, bè, avete capito.
Ieri, a suonare al Disco Days, c'era anche uno degli insegnanti dell'8 jazz. So quanto gli darebbe fastidio il titolo di insegnante, ma lo è stato davvero, quindi, è inutile far finta di niente. Per due anni ho suonato nel suo gruppo blues di musica d'insieme. Avete idea di quanto possa essere difficile spiegare e provare a far capire l'essenza di un genere musicale come il blues ad un gruppo fin troppo variegato d'umanità? Mica è facile? Non parliamo solo di un brano o due, di un paio di battute da suonare con più intensità o meno, parliamo di spiegare ad un collage di uomini cosa sia il genere che ha condotto giganteschi esseri umani neri dalle catene alla libertà spirituale. Collage? Perché? Il primo anno che seguivo quelle lezioni io, il pianista e il batterista avevamo meno di vent'anni, la voce e chitarra (Il personaggio di cui stiamo parlando), le altre due chitarre ed il sassofonista più di quaranta. Suonavo il blues con delle persone che potevano essere i miei genitori. Sarebbe materia per un romanzo.
E così, Guido Migliaro (l'insegnante, l'amico, il personaggio di cui stiamo parlando) ci spiegava ogni mercoledì sera (o dovrei dire notte?) cosa fosse il blues, cosa stavamo effettivamente facendo, cosa dovevamo tenere davanti agli occhi mentre suonavamo.
Ed il blues è diventato piano piano ciò a cui mi rivolgo per far passare una brutta serata, o per cancellare qualche brutto ricordo. Poi ognuno lo vive a modo suo. Leggetevi l'intervista così capite cos'è il blues per Guido Migliaro.
Per me è molte cose insieme. E' la musica che accompagna le mia partenze e i miei ritorni. E' la musica che mi racconta che il dolore, l'amore, la malinconia, la sfortuna, il destino, le scelte, gli errori, le fatalità, le bestemmie, le situazioni complicate, i tradimenti, le promesse, le amicizie, gli incontri di una notte, fanno parte della vita di tutti gli uomini. Che tutte queste cose SONO la vita degli uomini. E così con il blues ci si sente meno soli su questa terra.




Questi sono Guido Migliaro ed il suo bassista/contrabbassista Umberto Sirigatti.
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